La Corte Costituzionale si pronuncia sulla nuova fattispecie di abuso d'ufficio



La Corte costituzionale, con sentenza n. 8 del 18 gennaio 2022, ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale prospettati in relazione al novellato art. 323 c.p. (‘Abuso d’ufficio’) nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 23, comma 1, D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale ), convertito, con modificazioni, nella L. 11 settembre 2020, n. 120 (modifica normativa di cui si era data notizia in questa sezione, cfr. https://www.ciancilaw.it/it/news-7.asp?idnews=4 ).
Tali dubbi di costituzionalità investivano, nella prospettiva accolta dal Giudice rimettente (Gup del Tribunale di Catanzaro), sia il procedimento di produzione della norma, introdotta mediante decretazione d’urgenza, sia il suo contenuto.
Per quel che attiene al primo aspetto, il Giudice rimettente prospettava un possibile contrasto tra la citata norma e l’art. 77 Cost., perché del tutto avulsa rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del D.L. n. 76/2020, ed estranea alle ragioni poste a fondamento dell’adozione di tale normativa da parte del Governo, correlate alla ritenuta necessità di introdurre misure di semplificazione amministrativa e di rilancio economico del Paese, per far fronte alle ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Più in generale, poi, si adduceva a sostegno dell’incostituzionalità della norma censurata, la carenza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza, che legittima l’intervento legislativo da parte dell’organo esecutivo, come previsto dall’art. 77 Cost.
Con riferimento ai contenuti, invece, a parere del Giudice a quo la norma in discorso non rispetterebbe il disposto degli artt. 3 e 97 Cost., che sanciscono, rispettivamente, il principio di uguaglianza-ragionevolezza ed il principio di buon andamento e l’imparzialità della amministrazione.
Ciò in quanto – si osserva - l’abuso, nella sua attuale formulazione, per assumere rilievo penale dovrebbe risolversi nell’inosservanza di una norma legislativa che preveda una attività amministrativa vincolata “nell’an, nel quid e nel quomodo”: il che renderebbe pressoché impossibile la configurabilità del reato, tenuto conto della estrema rarità dei casi di attività amministrativa integralmente vincolata, e dunque non varrebbe ad apprestare adeguata tutela al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della pubblica amministrazione. Resterebbero, infatti, impunite le condotte di quei soggetti che, conservando margini di discrezionalità nell’esercizio del potere decisionale loro riconosciuto, si trovano in una posizione privilegiata per abusarne, donde la violazione del principio di eguaglianza, in ragione del diverso trattamento accordato al potere discrezionale attribuito al pubblico amministratore rispetto alla facoltà di disposizione della propria cosa riconosciuta al proprietario privato.
Chiamata a pronunciarsi su tali aspetti, la Corte si è innanzitutto soffermata sulla questione relativa alla asserita violazione dell’art. 77 Cost., ritenendola nel merito infondata.
A tal proposito, il Giudice delle leggi esordisce ribadendo che il suo sindacato in ordine alla sussistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, al fine di evitare sconfinamenti in valutazioni di natura politica, resta circoscritto alle sole ipotesi di ‘mancanza evidente’ dei presupposti in discorso o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze Corte cost. n. 186/2020, Corte cost. n. 288/2019).
Nello specifico, precisa la Corte che l’apprezzamento dell’esistenza dei presupposti fattuali contemplati dall’art. 77, comma 2, Cost., resta “collegato ad una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico”. Da ciò ne deriva che l’urgente necessità del provvedere può riguardare “una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione”.
Viene dunque assegnato rilievo al “profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza”, con la conseguenza che sono censurabili, sotto questo profilo, solamente quelle disposizioni contenute nel decreto-legge che, in maniera evidente, risultino totalmente estranee o addirittura “intruse”.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Consulta ha reputato la norma di cui trattasi non “eccentrica ed assolutamente avulsa, per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita”.
Si sottolinea infatti in sentenza che le norme, pur eterogenee, contenute nel D.L. n. 76/2020 presentano un comune denominatore, rappresentato “dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica”. Il perseguimento di tale obiettivo è coerente, ad avviso della Corte Costituzionale, con il restringimento del perimetro della fattispecie del reato di abuso d’ufficio, “nell’idea che la ripresa del Paese possa essere facilitata da una più puntuale delimitazione delle responsabilità. ‘Paura della firma’ e ‘burocrazia difensiva’, indotte dal timore di un’imputazione per abuso d’ufficio, si tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e immobilismo, in un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente”.
Inoltre, il Giudice costituzionale ha ritenuto che nel caso in esame non ricorra una evidente mancanza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza, in ragione dell’interesse a rendere più efficiente l’attività della pubblica amministrazione, ed all’“esigenza di far ‘ripartire’ celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia”: valutazione, questa, che “non può considerarsi manifestamente irragionevole o arbitraria”.
Per quel che attiene invece alle censure concernenti il contenuto della suddetta norma, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., le relative questioni sono state dichiarate inammissibili, posto che una eventuale pronuncia di accoglimento da parte della Corte avrebbe determinato la reviviscenza della norma precedentemente in vigore, con l’effetto di ampliare la sfera della punibilità: il che, tuttavia, è precluso, in ossequio al principio della riserva di legge sancito dall’art. 25 comma 2 Cost.
Il caso sottoposto al vaglio del Giudice delle leggi, infatti, non è ricompreso tra quelli per i quali è ammessa la sindacabilità in malam partem delle cosiddette norme penali di favore, ossia di quelle norme che stabiliscono, “per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento”.
In tale ipotesi, in effetti, ci si trova dinanzi ad una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale, di talché – osserva conclusivamente la Corte - “la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale”.