La Cassazione si pronuncia sul perimetro della tutela penale del know how industriale



La Corte di Cassazione si è recentemente soffermata, con una interessante pronuncia, sulle implicazioni penalistiche connesse alla tutela del know how industriale (Cassazione penale sez. V, 11/02/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 04/06/2020, n.16975), tema di grande attualità e dai rilevanti risvolti applicativi.

Per meglio comprendere i termini della vicenda sottoposta all’esame dei giudici di legittimità, è utile dare sinteticamente conto dei fatti da cui essa trae origine.

Come si desume dalla ricostruzione fornita in sentenza, i quattro imputati, in allora alle dipendenze di una società dedita alla progettazione, costruzione e successiva commercializzazione di apparecchiature per il serraggio, avevano preso parte alla realizzazione di un prodotto altamente tecnologico, a cui era associato un particolare software.

In seguito allo sviluppo di tale prodotto, gli imputati avevano cessato il loro rapporto con la società ed avevano intrapreso una nuova collaborazione con una società competitor della prima.

In tale nuova realtà, secondo la prospettazione accusatoria, accolta anche dai giudici di appello, gli stessi avrebbero sfruttato il patrimonio conoscitivo e le esperienze professionali maturate negli anni in cui erano alle dipendenze della società, comprese parti del menzionato software messo a punto da quest’ultima, per a loro volta produrre e commercializzare un prodotto analogo a quello in precedenza sviluppato.

Attraverso ricorso per Cassazione, la difesa degli imputati si duole del fatto che la Corte territoriale sia addivenuta al riconoscimento della loro penale responsabilità, pur a fronte del difetto di una puntuale individuazione del know how asseritamente impiegato in maniera illecita, non potendosi attribuire indistintamente tale valore a qualsivoglia processo produttivo o commerciale.

Segnatamente, ad avviso dei ricorrenti il prodotto che si assume replicato sarebbe un prodotto semplice e in commercio da tempo, sicché proprio la sua commercializzazione aveva reso di pubblico dominio l'asserito know how, privandolo così di qualsiasi pretesa di tutelabilità. Sostiene, ancora, la difesa che la censurata sentenza avrebbe erroneamente trascurato il dato secondo cui il preteso know how non sarebbe comunque meritevole di tutela in sede penale, non avendo la società adottato alcuna misura di protezione idonea a circoscrivere l’accesso alle informazioni ovvero a tutelare la asserita segretezza del proprio know how, quale la stipulazione con gli ex dipendenti di un patto di non concorrenza.

Nel rigettare le doglianze dedotte, la Suprema Corte ha dapprima rimarcato che per know how si intende "quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l'esercizio, la manutenzione di un apparato industriale" e, dunque, l’espressione fa riferimento “a una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione, e, in via sintetica, all'intero patrimonio di conoscenze di un'impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni, e capace di assicurare all'impresa un vantaggio competitivo, e quindi un'aspettativa di un maggiore profitto economico. Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all'ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti. Esso si traduce, in ultima analisi, nella capacità dell'impresa di restare sul mercato e far fronte alla concorrenza."

Da tali premesse ne deriva che alla tutela del know how approntata in ambito civilistico si affianca quella - più ampia - di stampo penalistico, apprestata per mezzo della fattispecie di cui all’art. 623 c.p. (’Rivelazione di segreti scientifici o commerciali’), che tutela l’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale, ivi comprese le innovazioni e migliorie che trovano applicazione nell’ambito della progettazione, ancorché non brevettabili.

A tal proposito, ha infatti osservato la Corte che “l'ambito di applicazione dell'art. 623 c.p. va oltre la sfera di protezione predisposta dall'ordinamento civilistico per l'invenzione brevettabile posto che, ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non sono requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poiché non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perché l'interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette. Inoltre, non è necessario che ogni singolo dato cognitivo che compone la sequenza sia "non conosciuto", essendo sufficiente che il loro insieme organico sia frutto di un'elaborazione dell'azienda giacché è attraverso questo processo che l'informazione finale acquisisce un valore economico aggiuntivo rispetto ai singoli elementi che compongono la sequenza cognitiva”.

Sotto altro profilo, la Corte di Cassazione ha poi sottolineato come la nozione penalistica di segreto industriale di cui all’art. 623 c.p., sopra delineata, non possa declinarsi secondo i parametri desumibili dall’art. 98 del codice della proprietà industriale in tema di informazioni aziendali segrete, così escludendo la possibilità di operare una assimilazione tra i due concetti, non del tutto sovrapponibili.

Ciò in quanto, ad avviso della Suprema Corte, all'art. 98 c.p.i. non può essere attribuita “la funzione di norma integrativa, poiché questo implicherebbe che al concetto di segreto industriale, come definito da tale norma, possa essere attribuito valore generale. Ma ciò contrasta con il dato che lo stesso codice della proprietà industriale, all'art. 99, facendo salva la disciplina della concorrenza sleale, riconosce l'esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall'art. 98 c.p.i., sono meritevoli di tutela”.

Tale considerazione, del resto - osserva conclusivamente la sentenza sul punto - trova conforto nel richiamato insegnamento della Corte medesima (Cass. Sez. V, 20 settembre 2018, n. 48895) secondo cui “la nozione di segreto commerciale accolta dall'art. 623 c.p., è più ampia di quella descritta dall'art. 98 c.p.i. Questo comporta che, se l'art. 98 c.p.i. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie previsti dall'art. 623 c.p. - potendosi riscontrare, invece, solo una mera identità terminologica nel riferimento ai "segreti commerciali", non sufficiente per giustificare una assimilazione anche della disciplina, in due settori diversi e indipendenti dell'ordinamento - tuttavia, in presenza di un know-how avente i requisiti previsti dall'art. 98 c.p.i., potrà accordarsi la tutela prevista dall'art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall'art. 98 c.p.i., dovrà individuarsi aliunde l'esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto”.

Il pregio della sentenza in commento sta dunque nell’aver contribuito a delineare con maggior chiarezza i confini della nozione di segreto industriale rilevante in sede penale, prospettandone - condivisibilmente - una lettura estensiva in grado di assicurare una più incisiva tutela del patrimonio conoscitivo ed esperienziale aziendale.