Incompatibili con la Costituzione le pene detentive attualmente previste per la diffamazione a mezzo stampa: la Consulta sollecita l’intervento del Legislatore.



È stata rimessa alla Corte Costituzionale la questione in ordine ad eventuali profili di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 («Disposizioni sulla stampa») e 595, comma 3, c.p., laddove sanzionano il reato di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e con l'attribuzione di un fatto determinato, cumulativamente con la pena pecuniaria e detentiva, e non invece in via alternativa tra loro.

Secondo i giudici rimettenti, l’attuale trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie in discorso, punita con la reclusione, non sarebbe conforme al dettato dell’art. 117 comma 1 Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, ed a quello degli artt. 3, 21, 25 e 27 Cost., essendo irragionevole e sproporzionata la previsione di una pena detentiva per fatti pur sempre espressivi della libera manifestazione del pensiero.

Con l’ordinanza 132/2020 del 9/6/2020, la Corte ha sostanzialmente aderito alle prospettazioni dei rimettenti, ritenendo che l’attuale assetto normativo debba essere rivisitato ad opera del Parlamento, per meglio ponderare l’esigenza di tutelare la libertà di manifestazione del pensiero, da un lato, e la reputazione personale, dall’altro lato, in ossequio anche alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

A tal proposito, il giudice costituzionale dà conto dell’orientamento in materia della Corte di Strasburgo, secondo il quale la pena detentiva inflitta al giornalista, anche nel caso in cui questi offenda l’altrui reputazione, costituisce una interferenza sproporzionata rispetto alla libertà di espressione, tutelata dal paragrafo 1 dell'art. 10 CEDU, salva soltanto l’ipotesi eccezionale in cui siano stati seriamente offesi altri diritti fondamentali. Viene, in questa prospettiva, posto l’accento sul pregiudizio che l’effetto dissuasivo sotteso al timore di incorrere in sanzioni detentive arrecherebbe all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti, tenuto conto del fondamentale ruolo di inchiesta e informazione che gli stessi rivestono nell’attuale società. In sintesi, dunque, le soluzioni adottate dagli Stati nel disciplinare l’esercizio della libertà di espressione devono - secondo l’insegnamento dei giudici sovranazionali - assicurare una adeguata tutela della reputazione personale ma, al contempo, scongiurare l’ipotesi che i media siano indebitamente dissuasi dallo “svolgimento del loro ruolo di segnalare all'opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso dei pubblici poteri” (così la richiamata Corte Edu, Grande Camera, sentenza 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania). Di analogo tenore, fa notare la Corte, sono anche le indicazioni provenienti dagli organi politici del Consiglio d’Europa, che hanno a più riprese sollecitato gli Stati aderenti alla Convenzione a rinunciare all'applicazione delle sanzioni detentive per il delitto di cui si discorre, allo scopo di assicurare una tutela quanto più efficace possibile alla libertà di espressione dei giornalisti e, in via speculare, al diritto dei cittadini ad essere informati.

L’estensore dell’ordinanza in commento, poi, evidenzia come anche alla luce dell’ordinamento interno la libertà di manifestazione del pensiero, sancita dall’art. 21 Cost., di cui la libertà di stampa è diretta espressione, costituisca un diritto fondamentale e coessenziale al regime di libertà garantito dalla carta costituzionale. È altrettanto vero, però, che analoga rilevanza riveste la reputazione personale, strettamente connessa con la dignità della persona, diritto inviolabile a mente dell’art. 2 Cost. e componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all'art. 8 CEDU, che lo Stato ha il preciso obbligo di tutelare. Peraltro, una tale esigenza di tutela, come fa giustamente notare il giudice costituzionale, è ancor più avvertita ai giorni nostri, tenuto conto degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate, risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato”.

Conseguentemente, la Corte ritiene che il bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero, da un lato, e la tutela della reputazione personale, dall'altro, debba essere rimodulato, in modo tale da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica con le altrettanto pressanti ragioni di effettiva tutela reputazionale del singolo. Del resto, il punto di equilibrio tra i due interessi in gioco non può essere pensato come fisso e immutabile, essendo piuttosto soggetto a necessari assestamenti, a maggior ragione ove si consideri la rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione degli ultimi tempi.

Ciò detto, la Corte conclude osservando che Il compito di disegnare un nuovo ed equilibrato sistema di tutela di tali valori spetta in prima battuta al legislatore, chiamato a individuare complessive strategie sanzionatorie che escludano il ricorso a sanzioni penali detentive, salvi i casi di eccezionale gravità (vi rientrano quelli in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi di odio), privilegiando invece quelle non detentive, nonché i rimedi civilistici e le misure di carattere disciplinare.

Pertanto, con l’ordinanza in esame è stato disposto il rinvio dell’udienza di discussione di un anno, così da consentire al Parlamento di esaminare i progetti di legge presentati in materia ed attualmente sottoposti al suo vaglio. In tal modo, viene dato seguito alla soluzione di ‘compromesso’ (rinvio con sospensione), già attuata nel noto caso Cappato, in cui la Corte, ravvisando alcuni profili di incostituzionalità della disciplina presa in esame, ha dapprima invitato il legislatore ad intervenire e, soltanto dopo averne constatato l’inerzia, ha dichiarato l’illegittimità della disposizione censurata.

È, dunque, auspicabile che questa volta il legislatore si dimostri attento e intervenga in tempi brevi, cogliendo l’occasione per compiere una approfondita riflessione sul tema, così da scongiurare la preannunciata pronuncia di incostituzionalità.